La storia di sinistra e dei riformisti appartiene a una storia di libertà, a una tradizione di critica sociale e di sogno, a un percorso che sembra essersi lacerato, reciso. Io vorrei riprenderlo, parlando da un immenso passato e un futuro politico incerto. Io faccio parte dell’anima di sinistra riformista e non di quella rivoluzionaria. Sono queste le domande che mi affliggono dopo la lettura del libro di Alessandro Orsini, giovane professore napoletano di Sociologia Politica all’Università Tor Vergata, intitolato Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubettino) ha provato a dare delle risposte. Un libro di riflessione teorica sulla sinistra degli ultimi anni. Il professore ci presenta due anime della sinistra storica italiana e ci mostra, come nel tempo, una abbia avuto il sopravvento sull’altra. Nella prima parte, Orsini, spiega come i comunisti hanno educato generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei pericolosi nemici, ad insultarli ed irriderli. Fa un certo effetto rileggere le parole con cui un intellettuale raffinato come Gramsci definiva un avversario, non importa quale: “la sua personalità ha per noi, in confronto della storia, la stessa importanza di uno straccio mestruato”. Invitava i suoi lettori a ricorrere alle parolacce e all’insulto personale contro gli avversari che si lamentavano delle offese ricevute: “per noi chiamare un porco se è porco, non è volgarità, è proprietà di linguaggio”. Arrivò persino a tessere l’elogio del cazzotto in faccia contro i deputati liberali. I pugni, diceva, dovevano essere un programma politico e non un episodio isolato. Certo, il pensiero di Gramsci non può essere confinato in questo tratto violento, e d’altronde le sue parole risentivano l’influenza della retorica politica dell’epoca.
Eppure, in questi stessi anni Filippo Turati, dimenticato pensatore e leader del partito socialista, conduceva una tenacissima battaglia per educare al rispetto degli avversari politici nel tentativo di coniugare socialismo e liberalismo: “tutte le opinioni meritano di essere rispettate. La violenza, l’insulto e l’intolleranza rappresentano la negazione del socialismo. Bisogna coltivare il diritto a essere eretici. Il diritto all’eresia è il diritto al dissenso. Non può esistere il socialismo dove non esiste la libertà”.
Naturalmente, oggi, nel Pd erede del Pci, non c’è più traccia di quel massimalismo nerboso e violento, e anche il linguaggio del Sel di Ventola è molto meno acceso: mai che li sfiori l’idea che essere marginali e inascoltati; nel caso del Sel non è sinonimo di purezza, ma spesso semplicemente mancanza di merito. Turati a tutto questo avrebbe pacificamente opposto il diritto a essere eretici, che Orsini ritiene essere il suo più importante lascito pedagogico; ma l’odio per i riformisti, spiega Orsini, è il pilastro della pedagogia dell’intolleranza: dal momento che i riformisti cercano di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori qui e ora, sono percepiti da certi rivoluzionari come alleati dei capitalisti. Questo libro dimostra come, nella cultura rivoluzionaria, il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori sia un bene (come diceva Labriola) perché accresce l’odio contro il sistema e rilancia l’iniziativa rivoluzionaria: è il famigerato (tanto peggio tanto meglio). I riformisti, invece, non credono nella società perfetta, ma in una società migliore che innalzi progressivamente il livello culturale dei lavoratori e migliori le loro condizioni di vita anche attraverso la partecipazione attiva alla gestione della cosa pubblica. I Riformisti; spiegava Turati, sono realisti e tolleranti: realisti perché credono che non sia possibile costruire una società in cui siano banditi per sempre i conflitti; tolleranti perché rifiutano il perfettismo, si pongono al riparo dalla convinzione di avere avuto accesso alla verità ultima sul significato della storia.
Turati pagò a caro prezzo la sua durissima battaglia contro la pedagogia dell’intolleranza: quando morì in esilio, in condizioni di povertà, Palmiro Togliatti scrisse un articolo su Lo Stato Operaio, in cui affermò che era stato il più corrotto, il più spregevole, il più ripugnante tra tutti gli uomini della sinistra.
Consiglio questo libro a chi si sente smarrito “a sinistra”. Potrebbe essere uno strumento di comprensione e, soprattutto, di difesa: difenderebbe il giovane lettore dai nemici del dialogo, dai fautori del litigio, dagli attaccabrighe pronti a parlare in nome della classe operaia, degli emarginati, degli invisibili, dai pacifisti talmente violenti da usare la pace come strumento di aggressione per chiunque la pensi diversamente.
Turati aiuta a comprendere quanta potenza ci sia nel riformismo, che molti considerano pensiero debole, pavido, direbbero persino sfigato. Il riformismo di cui parla Turati fa paura ai poteri, alle corporazioni, alle caste, perché prova, cercando consenso, ponendosi dubbi, ragionamento e confrontandosi, di risolvere le contraddizioni qui e ora. Turati diceva di confessarci ignoranti. Turati era convinto che la prospettiva culturale da cui guardiamo il mondo fosse decisiva per lo sviluppo delle nostre azioni. Questa è la ragione per cui attribuiva la massima importanza al ruolo dell’educazione politica: prima di trasformare il mondo, occorre aprire la mente e confrontarsi con i propri pregiudizi. Le certezze assolute fiaccano anche le intelligenze più acute: la pedagogia della tolleranza è il primo passo per la costruzione di una società migliore. DonatoPoliticaPress
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